Manoscritti di IV-VI sec. (“codices antiquiores”)

In conformità con la definizione data da Lowe nei CLA, con il termine codices antiquiores generalmente si designano tutti i manoscritti latini superstiti non più tardi dell’VIII sec.,

In realtà, per Virgilio è entrato nella prassi editoriale l’uso di designare in questo modo esclusivamente i testimoni diretti che, contenendo porzioni abbastanza estese di testo, consentono di ricostruirlo nella sua interezza.

Tra questi spiccano sette manoscritti tardo-antichi, di cui quattro quasi integri e tre frammentari, databili tra il IV e il VI secolo. Gli antiquiores sono “raffinati prodotti di un artigianato industriale di alte capacità”, guidato dai “meccanismi imitativi di una tradizione ormai plurisecolare” (Petrucci).

A questi testimoni si aggiunge un codice frammentario databile al V sec., il Palinsesto Ambrosiano (B), e due manoscritti molto lacunosi, che costituiscono gli unici testimoni dell’VIII sec. (m, p ).

 

 

Lista dei Codices Antiquiores (Aeneis, Conte 2009)

La lista che segue riproduce il sistema di sigle adottate nella recente edizione teubneriana dell’Eneide curata da Conte.

M   cod. Mediceus Laurentianus lat. XXXIX,1 (saec. V ex.)

P   cod. Vaticanus Palatinus lat. 1631 (saec. V)

R   cod. Vaticanus lat. 3867, dictus “Romanus„ (saec. VI in.)

A   cod. Vaticanus lat. 3256 et Berolinensis lat. fol. 2,416, dictus “Augusteus„ (saec. VI)

F   cod. Vaticanus lat. 3225, “Fulvii Ursini schedae Vaticanae„ (saec. IV ex. / V in.)

G   cod. Sangallensis 1394 (saec. V/ VI in.)

V   cod. Veronensis XL (saec. V)

B   Palimps. Ambrosianus L 120 sup., olim Cimel. Ms. 3, saec. V

m   Monacensis lat. 29216/7, olim 29005/18, saec. VIII ex.

p   Parisinus lat. 7906, saec. VIII ex.

 

Caratteristiche fisiche

Fra i codices antiquiores di Virgilio i sette più importanti (MPRAFGV) si distinguono per la varietà dei formati e per le diverse tipizzazioni di capitale in cui sono redatti: gli uni e le altre hanno offerto elementi per localizzare e datare, con vari margini di approssimazione, i singoli manufatti, consentendo altresì di avanzare ipotesi sulle modalità di produzione e sulla possibile destinazione
degli stessi. Per un inquadramento di tali problematiche si vedano, in generale, i contributi di PetrucciPratesi. In particolare, l’analisi delle illustrazioni del Virgilio Vaticano (F) e del Virgilio Romano (R) ha determinato un dibattito più articolato tra gli studiosi.

Le dimensioni più ridotte si riscontrano in due fra questi codici, il Mediceo (M) e il Vaticano (F): con un’altezza inferiore ai 22 cm, i due manoscritti presentano un formato maneggevole, destinato probabilmente allo studio e alla lettura privata. Le varietà di capitale rustica in cui sono redatti, piccola e linda nel caso di M, ben tracciata e di tipo antico in F, mostrano alcune affinità, pur mantenendo ciascuna specifiche accentuazioni modulari e stilistiche.

Di formato poco più grande è il Virgilio Veronese (V, alto 28 cm), famoso codice palinsesto in capitale rustica: dotato di ampi margini, forse destinati ad accogliere un commento scolastico, V appare come un esemplare di pregio ad uso di un notabile erudito. Si vedano al riguardo i contributi di Geymonat e Condello.

Il Virgilio Romano (R) e il Palatino (P) sono, invece, codici di dimensioni mediamente grandi (superano in altezza i 30 cm); le capitali calligrafiche in cui sono vergati presentano elementi comuni, che riflettono il medesimo gusto e modificano il canone fondamentale secondo criteri analoghi, forse a causa della provenienza dalla stessa scuola (Pratesi). Tuttavia, il Virgilio Romano è un prodotto più tardo del Palatino, come dimostra non solo la scrittura, più faticosa e “scolastica”, ma anche altri elementi paleografici e stilistici (datazione del Virgilio Romano).
Un aspetto decisamente monumentale contraddistingue il Sangallese (G) e Augusteo (A), caratterizzati da misure imponenti (superiori ai 40 cm di altezza), I due codici sono vergati in due varietà di una scrittura dal marcato carattere ornamentale, la capitale elegante (detta anche quadrata), ispirata a modelli epigrafici, È stato proposto (Pratesi) di ricondurre l’origine dei due codici ad ambienti dominati da un pubblico di nuovi potentes, dove essi svolgevano la funzione di libro oggetto: ciò è confermato anche dall’assenza d’interventi di correzione.

Un dibattito assai articolato si è sviluppato intorno alla datazione dell’ Augusteus: secondo, Petrucci, a cui si deve un fondamentale un articolo sull’argomento, il codice va collocato nella prima metà del VI sec.. Una delle caratteristiche più interessanti del manoscritto è la presenza di una littera notabilior all’inizio di ciascuna pagina: questo elemento, osservabile in altri codici del VI sec., conferma la datazione bassa dell’Augusteo.

Copisti e correttori adoperavano di solito un inchiostro scuro; quello di color rosso (minio), riservato al rubricatore, è impiegato con abbondanza in alcuni degli antiquiores: nel Mediceo, i primi tre versi delle pagine iniziali di Georgiche ed Eneide sono vergati in minio, molto usato anche nei titoli (nel Romano, ad esempio) e nelle lettere iniziali (come nell’Augusteo).

 

Illustrazioni: Il Vaticano (F)

I 75 fogli superstiti del codice Vat. lat. 3225 (F) sono impreziositi da 50 miniature, parte di un corpus più ampio che doveva comprenderne in tutto circa 280 (Wright), distribuite sui 375-450 fogli che formavano l’intero manoscritto.

Inserite all’interno del testo, le miniature precedono, in genere, la sezione di componimento alla quale si riferiscono, richiamando una tipologia illustrativa tipica dei rotoli di papiro.

Almeno in un caso, però, la miniatura appare concepita per adattarsi al formato del codice: in apertura di georg. 3 si trova, infatti, un riquadro diviso in sei rettangoli più piccoli che rappresentano scene inerenti ai primi 15 versi del componimento.

La riproduzione con commento del Virgilio Vaticano a cura di Wright è particolarmente utile per lo studio delle illustrazioni; per avere un’idea delle miniature di F, è inoltre possibile reperirne delle riproduzioni in rete.

Gli studiosi sono concordi nel ritenere che il codice sia stato illustrato da tre diversi miniatori, probabilmente contemporanei e provenienti dallo stesso ambiente, come suggerisce la presenza di alcuni elementi comuni (l’uso dell’oro per sottolineare le pieghe delle vesti e le parti illuminate degli oggetti, l’ignoranza assoluta del chiaroscuro).

Secondo De Nolhac, responsabile dello studio più accurato in merito, è possibile distinguere tra una prima mano (Georgiche, pitture 1-9) appartenente ad un artista elegante e meticoloso, una seconda mano (Aen. 1-4.583, pitture 10-25) che mostra un’attitudine frettolosa e poco senso della prospettiva, e un terzo miniatore (Aen. 5-12, pitture 26-50), che, più fine e abile del secondo, si colloca ad un livello qualitativo intermedio tra i due predecessori.

Per quanto riguarda le fonti iconografiche del Vaticano, due sono le ipotesi principali.

  1. Alcuni studiosi sostengono che le miniature derivino da cicli illustrativi precedenti, contenuti in edizioni di Virgilio di vario formato. A sostegno di tale ipotesi si adduce la presenza, per ben 32 volte, di spazi bianchi alla fine delle pagine che precedono quelle arricchite, nella parte alta, da una miniatura: tale disposizione del materiale denota un certo imbarazzo nel raccordare testo e immagini nel formato del codex. Si è pensato, pertanto, che le illustrazioni del Vaticano derivassero da un modello librario precedente: un altro codice miniato, di poco anteriore ma di formato differente (De Nolhac), o un insieme di rotoli papiracei illustrati (Wright, Ruysschaert). A un modello su rotolo sembrano rimandare le tracce di un medaglione con ritratto dell’autore rinvenute tramite analisi con ultravioletti sul foglio che contiene la fine di Aen. 6: nel libro in più rotoli, tale tipologia illustrativa compariva all’inizio di ciascun rotolo; nel codice, invece, si sviluppò la consuetudine di inserire un unico ritratto del poeta in apertura dell’opera (vedi Mart. Ep. 14.186: Quam brevis immensum cepit membrana Maronem!/ ipsius vultus prima tabella gerit): la questione è discussa da Weitzmann. Per spiegare l’insolita posizione del medaglione nel Vaticano (all’inizio del settimo libro, dunque a metà dell’opera) sono state avanzate ipotesi diverse: Weitzmann pensa che il codice, derivando l’ Eneide da un’edizione in 12 rotoli, avesse un medaglione all’inizio di ogni libro; Stevenson ha proposto che il medaglione segnalasse l’inizio della seconda metà del poema e che altri fossero dislocati all’inizio di Bucoliche, Georgiche e della stessa Eneide.
  2. Un certo numero di studiosi, invece, ha ritenuto le miniature del Vaticano creazioni originali degli artisti che le realizzarono. Secondo De Wit, ad esempio, i miniatori componevano liberamente, traendo da repertori di tipi figurativi tradizionali alcuni motivi ricorrenti, riconducibili alla lingua franca iconografica di area occidentale: l’ipotesi è stata, in seguito, ripresa da Stevenson. Per spiegare la presenza di fogli con spazio bianco, De Wit suppone l’esistenza di accordi fra copista e miniatore per equilibrare le proporzioni fra testo e immagine sulla pagina; Stevenson, invece, si appella alla volontà di inserire le immagini in punti cruciali del testo: nessuna delle due soluzioni, tuttavia, è efficace nel chiarire le cause dell’insolita ma ricorrente impaginazione.

Confronti

Alcuni confronti iconografici inducono a datare le miniature, e quindi il codice, entro il primo ventennio del V secolo (Wright; de Wit), in un periodo spesso ricordato come “classical Revival” .
È stata messa in luce l’affinità delle miniature con i mosaici della navata di Santa Maria Maggiore in Roma, raffiguranti scene dell’Antico Testamento e datati al pontificato di Sisto III (432-40); inoltre, le illustrazioni del Vaticano sono state accostate a due avori scolpiti di argomento cristiano, conservati a Monaco e a Milano, e datati intorno al 400 d.C.; infine, si è notato che il gruppo con Laooconte e i serpenti, raffigurato in una delle miniature, rimanda ad una particolare iconografia diffusa su monete battute a Roma nel tardo IV secolo.

Un altro importante confronto accosta le miniature del Vaticano alle illustrazioni superstiti (Re 1 e 2 e Samuele 2) dell’Itala di Quedlinburg: si vedano, a tal proposito, Boeckeler e Stevenson.

Anche Bianchi Bandinelli, che accosta la seconda mano di F ad un gruppo di miniature dell’Iliade Ambrosiana (il gruppo D, costituito dalle miniature 37, 44, 55 e 56) in considerazione di elementi iconografici e di un’analoga trattazione dello spazio, considera la delicatezza nell’uso dei colori e dell’oro come una prova dell’anteriorità del pittore vaticano e concorda con la datazione coeva ai mosaici di Santa Maria Maggiore.

La ricchezza e finezza di esecuzione delle illustrazioni del Vaticano ha indotto gli studiosi, quasi all’unanimità, ad individuare Roma come luogo di produzione del codice, commissionato forse in ambito aristocratico e, dunque, testimonianza dell’ “ultimo fiorire dell’intelligentia pagana tra le famiglie senatorie” alla fine del IV secolo: a tal proposito, si rimanda a Wright, Stevenson, Mütherich.

 

Proposte di datazione e localizzazione di F

De Nolhac secc. IV-VI Area occidentale (Vivarium?)
Sabbadini secc. IV-V Spagna
Bianchi Bandinelli secc. Vin (ca. 420) Roma
Mütherich ca. 400 Roma
Stevenson sec. IVex. Roma
Petrucci sec. V2 Roma
Wright ca. 400 (370-420) Roma

 

Illustrazioni: Il Romano (R)

19 miniature si conservano sulle pagine del Romano (cod. Vat. lat. 3867): esse riguardano Bucoliche (7 miniature, una per ciascun componimento superstite), Georgiche (2 miniature) ed Eneide (10 miniature) e corrispondono circa alla metà del corpus originario, che doveva contenere 42 illustrazioni su un totale di 309 fogli.

Le miniature del Romano sono disponibili on line per una rapida consultazione; per uno studio più accurato, si consigliano le riproduzioni contenute nei volumi a cura di Wright e Ehrle.

Le illustrazioni delle Bucoliche sono integrate nel corpo del testo; di formato rettangolare e relativamente piccolo (con varie altezze), sono tutte (eccetto la prima) inserite in una cornice e alternano soggetti non strettamente inerenti al testo: scene pastorali, che rimandano a modelli bucolici generici (ecl. 1, 3, 5, 7), e tre ritratti “tipici” del poeta nei componimenti privi di impostazione dialogica (ecl. 2, 4, 6).
La tipologia di queste miniature, ancora in voga in età tardo-antica (Eggenberger), ricorda lo stile delle illustrazioni proprio dei rotoli di papiro; esse sono state ritenute, in alternativa, creazioni estemporanee dei miniatori a partire da motivi bucolici comuni.
La prima illustrazione, priva di cornice e sfondo, più accurata delle altre e recante i nomi dei personaggi, deriva probabilmente da un antico modello in rotolo, direttamente o attraverso la mediazione di un altro codice.

I tre ritratti di Virgilio seduto, con rotolo, leggio e capsa, riprendono modelli precedenti e convenzionali (Eggenberger); fra i più antichi ritratti del poeta, nonché primi esempi di sviluppo di tale tipologia illustrativa nel codice (Weitzmann), tali ritratti conoscono una certa fortuna nell’Alto Medioevo.

Georgiche ed Eneide sono arricchite, all’inizio di ogni libro, da coppie di miniature a tutta pagina, che costituiscono monumentali frontespizi con funzione decorativa e illustrativa insieme (si veda Ruysschaert).
Nel caso delle Georgiche, si rappresentano motivi generici non connessi ad episodi del testo (con l’eccezione del combattimento di tori che illustra georg. 3.215-41); i frontespizi dell’Eneide, invece, in origine uno per ciascuno dei dodici libri, si riferivano a momenti specifici della vicenda. In entrambi i casi, la tipologia illustrativa sembra pensata direttamente per il codice, anche se soltanto per l’Eneide è stata ipotizzata da Wright la derivazione da un ciclo figurativo precedente, forse contenuto in un modello librario accuratamente illustrato.

Allo stato attuale, gli studiosi consentono nel ritenere le miniature del Romano espressione di tendenze artistiche dominanti fra la fine del V e l’inizio del VI secolo.

Datazione del Virgilio Romano

Mentre i mosaici di Santa Maria Maggiore in Roma costituiscono il terminus post quem per la produzione delle miniature, un altro ciclo musivo, quello conservato nel battistero degli Ariani a Ravenna (nella sua seconda fase di realizzazione) rappresenta il limite ante quem (Eggenberger, Wright).
Ulteriore confronto per la datazione alla fine del V secolo offrono, secondo Wright, i dittici consolari eburnei di Basilio (480) e Boezio (487); contraria è l’opinione di Cameron, che postdata il dittico di Basilio al 541 ca. e abbassa, quindi, la datazione di R alla metà del VI secolo.
Una datazione “bassa” del Romano era già stata proposta da Cavallo e Pratesi, sulla base di considerazioni storico-artistiche (affinità con i mosaici ravennati), ma soprattutto per ragioni paleografiche (presenza dei nomina sacra, a proposito dei quali si veda Traube) e filologiche (interpolazione a Aen. 6.242, discussa da Norden, Fränkel e Cameron).

È stata ormai accantonata l’ipotesi che attribuiva al Romano origini provinciali, che sarebbero inverosimili, fra V e VI secolo, per un prodotto così grande e lussuoso; vari studiosi hanno quindi sostenuto la localizzazione del codice a Ravenna, incrociando dati paleografici e caratteristiche figurative (si vedano Rosenthal, Cameron, Pratesi). A Ravenna o a Roma come luoghi di realizzazione del codice pensano Mütherich ed Eggenberger, mentre Wright si concentra su Roma.

Proposte di datazione e localizzazione di R

Traube sec. VI1 Italia (Vivarium?)
Rosenthal secc. VIin. Areea orientale
Eggenberger sec. Vex./ VIin. Roma o Ravenna
Petrucci sec. VI1 Ravenna
Mütherich sec. Vex./ VIin. (ca. 500) Roma o Ravenna
Cavallo/Pratesi sec. VI1 Ravenna
Wright sec. V ex. (ca. 480) Roma
Cameron sec. V 1 (post 541) Ravenna/Costantinopoli

 

Testo e valore testimoniale

La pratica di collazionare le nuove copie del testo di Virgilio con esemplari già esistenti dovette affermarsi fin dalle prime decadi della trasmissione: grammatici, filologi, ma anche colti patrizi che leggevano il poeta su libri riccamente ornati dimostrarono interesse per la raccolta e lo studio di varianti testuali.

La tradizione sulla quale si basano i nostri manoscritti tardo-antichi e alla quale appartenevano i loro antigrafi, è, dunque, caratterizzata dalla presenza di una nutrita quantità di varianti, alcune molto antiche; alle varianti si aggiungono una serie di errori che, accumulati nei passaggi successivi, accompagnano la trasmissione. Nell’insieme, il testo tramandato dai codici antiquiores è corredato d’incertezze e corruttele: come ha osservato Timpanaro,

“i bei codici tardo-antichi in capitale sono prodotti di lusso, non prodotti filologicamente accurati. Hanno ereditato da manoscritti precedenti, in corsiva antica, buone lezioni ma anche errori, e i loro copisti hanno compiuto molti errori grossolani … per fraintendimento di scrittura minuscola.”

La pronuncia volgare e la tentazione dell’ ipercorrettismo rappresentano ulteriori e frequenti cause di corruzione del testo.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le corruttele che caratterizzano gli antiquiores sono errori singolari: di conseguenza, tali errori non mettono in discussione il valore dei manoscritti tardo-antichi in quanto fondamento testuale delle edizioni di Virgilio.

Per la ricorrenza di omissioni, ripetizioni, errori, anche triviali, il codice Romano è stato a lungo considerato il meno accurato fra i testimoni di Virgilio (Timpanaro lo ha definito “vestustior deterior”): le lezioni singolari che questo codice riporta sono (con rare eccezioni) antiche glosse penetrate nel testo.
Tale severo giudizio nei confronti di R risulta, tuttavia, ridimensionato qualora si consideri che gli altri codici tardo-antichi contengono una percentuale paragonabile, se non superiore, di errori: a  differenza del Romano, però, essi hanno subito un processo di correzione più intenso, dovuto alla differente modalità di utilizzazione (a tal proposito, si veda Gaebel).
Il Romano, d’altra parte, è l’unico testimone antico di ecl. 3.72-111 e 4.1-51 (le due sezioni sono conservate anche dal carolingio γ, probabilmente legato a P).

Al contrario, alcuni codici si distinguono per correttezza ortografica>: è il caso di F,G e V. Il Vaticano e il Palatino, inoltre, preservano numerose forme ortografiche arcaiche (a volte da considerare però come risultato d’interventi arcaizzanti); a queste, P aggiunge il valore di numerose lezioni autorevoli e interessanti, la cui attendibilità costituiva oggetto di discussione già presso scoliasti e grammatici antichi.

codices antiquiores contengono numerose correzioni antiche: nel caso del Mediceo, ad esempio, sappiamo che il codice fu emendato da Turcio Rufo Aproniano Asterio, durante il suo consolato del 494, per il frater Macharius, senatore e primo possessore del libro. Dalla subscriptio apposta sul codice si apprende che egli ne curò la distinctio e l’emendatio, presumibilmente per collazione con un altro esemplare: sull’argomento, è importante il recente contributo di Ammannati, basato su un esame autoptico del manoscritto.

Nel Palatino, invece, si rilevano interventi di varie mani correttrici, probabilmente operanti nell’ambito della stessa bottega che allestì il codice: oltre alle osservazioni di Sabbadini, si vedano le precisazioni di Ammannati.

L’ autorità del Mediceo è stata a lungo preponderante nella tradizione virgiliana: nel Quattrocento il codice era addirittura considerato autografo di Virgilio. All’inizio del secolo successivo, stesso valore fu attribuito al Palatino da Sebastiano Münzer. La tendenza ad esagerare l’antichità, e quindi l’autorità, di questo o quel manoscritto è proseguita fino alla fine del XIX secolo: soltanto con l’edizione di Ribbeck si è passati ad una valutazione più equilibrata dei singoli manoscritti tardo-antichi e dei rispettivi apporti alla costituzione del testo.

Il Mediceo rimane, comunque, un testimone di primaria importanza, sia per le correzioni di Asterio, sia in quanto è l’unico codice a tramandare alcune porzioni di testo (georg. 2.1-91, 118-38; Aen.11.757-782) e alcune pregevoli lezioni (e.g. georg. 1.155 herbam; 3.219 Sila; 4.141 tinus).

Conservazione e trasmissione

I principali manoscritti tardo-antichi di Virgilio pervenutici furono probabilmente prodotti per esser conservati nelle biblioteche personali di dotti notabili romani, come copie personali e/o come oggetti di pregio.

Durante il Medioevo, essi trovarono rifugio nelle biblioteche monastiche: ad esempio, il Mediceo (M) fu conservato a Bobbio, nel monastero benedettino di San Colombano (vd. Rostagno).

Il Virgilio Vaticano (F) giunse probabilmente a Tours, come si ricava da cospicue integrazioni eseguite da una mano carolingia e da possibili influssi delle miniature sugli artisti attivi nello scrittorio turonense (vd. Wright).

Anche un altro manoscritto tardoantico giunto a noi in forma molto frammentaria, l’Augusteus (A), presenta elementi che ne provano la provenienza dal monastero di St. Denis, dove secondo Bischoff giunse intorno all’VIII secolo (vd. Nordenfalk).

Intorno al XV sec. si colloca in genere il passaggio alle biblioteche di principi e signori o nella sede papale, dove tuttora si trova la maggior parte dei codices antiquiores (R, P, F, A). Per le vicende di alcuni di questi manoscritti in età umanistica vd. La riscoperta dei codices antiquiores.

Nel seguito si ripercorrono i passaggi più significativi della storia di due manoscritti che hanno notevolmente influenzato la tradizione del testo in età carolingia.

Il Palatino (P)

Il Palatino (Vat. lat. 1631) trae il nome dalla biblioteca Palatina di Heidelberg, dove giunse tra il 1556 e il 1559 per opera del conte palatino Ottone Enrico, che l’aveva fatto prelevare insieme ad altri volumi dal monastero di Lorsch.

Una possibile conferma della presenza del manoscritto a Lorsch si ricava dalla testimonianza di Sebastian Münster, che nella sua Cosmographia (1544) affermava di aver visto in quel monastero un esemplare di Virgilio scritto dall’autore stesso (anche il Mediceo veniva scambiato nel XV sec. con un autografo: vd. La riscoperta dei codices antiquiores).

In effetti, nell’inventario dei libri del monastero di Lorsch compilato intorno al principio del IX sec. figura un «Liber Virgilii», identificato con il Palatino da Sabbadini, che attribuiva allo scrittorio di Lorsch anche le glosse e gli interventi di correzione d’età carolingia (P4).

Partendo da questo dato, Lehmann formulò l’ipotesi che il codice fosse arrivato a Lorsch intorno all’860 insieme ai libri di Gerward, bibliotecario di Ludovico il Pio.

Bischoff accolse con cautela l’ipotesi di Lehmann, notando tuttavia che non vi è alcuna traccia dello stile tipico di Lorsch nelle annotazioni carolingie sul codice nel IX sec.: queste perciò precedono l’arrivo del Palatino a Lorsch.

A ciò si aggiunge che uno studio recente di McCormick ha evidenziato la presenza nel Palatino di ben 740 annotazioni a punta secca, fra cui si annoverano più di 600 glosse in latino, antico tedesco e note tironiane, databili alla metà o seconda metà del IX sec. e non riconducibili a Lorsch. Anzi, due nomi citati nelle annotazioni («Mudinus» e «Framiarius») potrebbero essere identificati con l’abate e il canonico dell’abbazia di St. Georges a Lione intorno all’830. A Lione probabilmente fu prodotto un codice carolingio (Guelf. Gud. lat. 70, γ) strettamente legato a P.

Nel XVI sec. P si trovava, come si è detto, nella biblioteca Palatina di Heidelberg: lì fu consultato da Jerôme Comelin, prefetto della biblioteca, che lo utilizzò nella sua edizione di Virgilio e vi appose correzioni e la numerazione dei versi (i suoi interventi sono indicati con il siglum P5 nell’apparato di Sabbadini).

Dopo un breve soggiorno a München (1622), nel 1623 il Palatino fu trasferito nella Biblioteca Vaticana, dov’è rimasto fino a oggi (salvo un trasferimento a Parigi tra il 1798 e il 1815).

Il Virgilio Romano (R)

Anche il Vergilius Romanus (Vat. lat. 3867) ha conosciuto una complessa storia e alterne vicende di trasmissione. Il codice, almeno a partire dal XIII sec., si trovava nell’abbazia di Saint Denis (Parigi), come dimostrano varie annotazioni, ex libris e la segnatura stessa con cui il volume (accompagnato dal titolo vergilius) era catalogato nella biblioteca dell’abbazia.

A Saint-Denis probabilmente il Romanus si trovava già nel IX sec.: nella Vita S. Germani di Héric d’Auxerre (composta intorno agli anni 864-5) viene riprodotto un errore singolare di R, assente in tutti gli altri manoscritti (Aen. 6.14: minoeia per Minoia: vd. Poetae Latini Aevi Carolini, iii, 775 s.v. Minoius). Sembra plausibile, come è stato ipotizzato da Traube, che intorno alla metà del IX sec. Héric avesse consultato il codice proprio a Saint-Denis.

Un altro indizio a favore della presenza del Romanus a Saint-Denis nel IX sec. è la presenza di una miniatura in un manoscritto copiato intorno all’870 in Francia settentrionale (Par. lat. 8093-V, f. 68v), che raffigura Titiro e Melibeo secondo l’iconografia (peraltro tradizionale) testimoniata nella prima miniatura che figura nel Romanus (f. 1r). Considerata la rarità di illustrazioni relative alle opere virgiliane testimoniate in età carolingia, appare molto probabile che il ricordo del venerando codice tardoantico abbia esercitato sull’illustratore del Par. lat. 8093-V un influsso più o meno diretto.

Inoltre, due manoscritti virgiliani copiati in Francia settentrionale intorno alla metà del IX sec. mostrano forti analogie con il testo di Virgilio tràdito dal Romanus: il Bern. 172 + Par. Lat. 7929 (a), relativamente alle Bucoliche e parte dell’Eneide, è considerato addirittura un descritto di R (o di una copia di R), e il Bruxellens. 5325-5327 presenta in una sezione dell’Eneide numerosi errori tipici di R, forse dovuti a contaminazione.

D’altra parte, il Romanus doveva trovarsi in Francia già dal VIII sec. (forse anche VII), perché reca traccia di una mano di età merovingica, come ha mostrato Wright. Anche se sembra molto difficile capire cosa sia successo fino all’arrivo a Saint-Denis (l’ipotesi che il codice facesse parte della fantomatica biblioteca di Carlo Magno non poggia su alcuna prova), si può immaginare che in questo arco temporale siano state tratte delle copie di R che si diffusero in Francia settentrionale, servendo da modelli per le copie d’età carolingia. Questo passaggio intermedio renderebbe ragione di alcune discrepanze osservate tra questi manoscritti e il contenuto del Romanus.

Da Saint-Denis il manoscritto si allontanò intorno al 1445: Jean Courtoy (abate di Saint-Denis) lo ritirò dalla biblioteca e probabilmente ne fece dono a un’alta personalità romana. Infatti, a partire dal 1475 il Romanus compare negli inventari della Biblioteca Vaticana (sulla storia successiva vd. Ruysschaert).